arrivo
di un prigioniero inglese, Jack Celliers (Bowie, nella sua migliore prova
come attore), mette scompiglio in un campo di prigionia giapponese a Giava,
nel 1942, comandato dal capitano Yonoi (Sakamoto), che prova un'irresistibile
attrazione verso lo sprezzante maggiore inglese, ma che riesce a frenare
per il suo rigoroso culto della disciplina e per la delusione di non essere
al fronte a morire per l'Imperatore. Celliers disprezza apertamente il
nemico, è fiero della propria patria, fomenta piccole rivolte (a
volte poco più che simboliche, ma che innervosiscono gli insensibili
e fermi soldati giapponesi, in primis il sergente Hara (Kitano)), ma viene
puntualmente "graziato" da Yonoi: entrambi però pagheranno
a caro prezzo le loro debolezze.
Il rapporto tra i due protagonisti va ben oltre la semplificata lettura in chiave omosessuale, tema che ritorna, quello del militare-omosessuale represso, in American beauty, per investire una cultura, quella giapponese, che combatte una guerra con irrazionale orgoglio ed ostinata quanto inutile caparbietà, in nome di ideali anacronistici. La contrapposizione tra la cultura orientale e occidentale è netta ed evidenziata anche da nervosismi apparentemente banali, come le lamentele dei prigionieri per gli "schiamazzi" mattutini del "samurai" Yonoi, ma celano, neanche velatamente, dissapori ben più aspri, che vanno al di là del semplice rapporto vincitori-vinti. Ma chi sono i veri vinti? Probabilmente, anzi certamente, tutti: nel senso militare quanto umano. Gli errori di ambo le parti bruciano ancora, ma sembra affiorare in alcuni un senso di repulsione nei confronti della guerra e del rigido protocollo militare (Celliers si esprime apertamente con parole e gesti, ma anche l'ufficiale ed interprete Lawrence (un inespressivo Tom Conti) mostra sempre disappunto per la violenta e spesso ingiustificata dei soldati nipponici -ma è disprezzato sia dai suoi compagni di prigionia, sia dai giapponesi- ): altri, ahime, rimangono sempre fedeli al loro status, prima soldati che uomini, schiavi delle norme che l'essere soldato o generale comporta nei rapporti con gli altri. Tanto che fa quasi tenerezza vedere Kitano ubriaco augurare buon Natale ai due inglesi perdonati per l'ennesimo strappo alle regole, perchè, in palese contrasto con tutto ciò che li circonda, è un gesto umano, spontaneo, compiuto sorridendo. Cui i due prigionieri rispondono con un sincero "arigato", perchè la lingua, da elemento fortemente divisorio con i soldati di guardia, si trasforma in simbolo di serena rappacificazione. Proprio il sergente Hara, grazie anche alla convincente interpretazione di Takeshi, sembra il personaggio più (spiace ripetersi) umano e spontaneo, benchè sia soldato e soprattutto debba gestire con superiorità e severità il suo status di "sentinella". Ed il finale del film, quasi a suggellare un ruolo così importante, sarà tutto suo. In tutti gli altri personaggi spiccano invece laceranti drammi e contraddizioni, frutti non solo del presente ma, soprattutto, del passato (come non scorgere un' aspra critica del regista nei confronti del proprio Paese): Jack, legato dopo aver cercato di liberare Lawrence, ricorda e gli racconta, nella più splendida sequenza del film, come in sogno, l'angoscia e il rimorso per il modo in cui aveva sempre trattato il fratello, rimasto per malattia piccolo e gobbo, per i riti di iniziazione cui non lo aveva sottratto al college, per l'impossibilità di rivederlo. Vorrebbe tornare, una volta finito tutto: ma non ci sarà tempo, né redenzione, né perdono per alcuno, si espieranno le proprie e altrui colpe come "criminali di guerra", in un'ideale proseguimento (dei crimini) sotto cui si cela il raccapricciante modo di intendere, da parte delle alte sfere politiche e militari, la pace, raggiunta (uomo, vergognati!) con la disintegrazione dei propri simili a Hiroshima e Nagasaki.
Giudizio:
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