Elephant
Quando
vidi per la prima volta L'arancia meccanica di Stanley Kubrick pensai che
mi era chiaro finalmente cosa ne aveva impedito la proiezione, per 20 anni,
in Gran Bretagna, e per quale motivo fu tanto osteggiato.
Di certo non a causa del tasso di violenza, piuttosto per quello di crudeltà
(paragonabile a quella di Fritz Lang) con la quale mostrava il lato ripugnante
di ogni moralismo quando si scontra con l'incomprensibile, l'irriducibile
elemento umano. I rieducatori di Alex, il drugo appassionato di Beethoven
e ultra-violenza, diventavano così le maschere grottesche di una "violenza
di Stato" - tanto da portarli ad assumere gli altri drughi nel corpo
della polizia.
Dunque il sano schiaffo di quel film proveniva da due passaggi troppo spesso
mancanti nelle parabole cinematografiche sulla violenza: l'assoluta convinzione
che non è possibile spiegare la violenza, ridurla a mozione puramente
psichica o sociologica - che ha contribuito a creare i tanti noiosi serial
killer psicopatici del grande schermo - e di conseguenza la trascurabilità
di ogni ricomposizione, di ogni finale, positivo o negativo.
Non c'è fine alla violenza senza Fine del Mondo, e probabilmente l'ultimo
gesto dell'ultimo uomo sarà simile al primo, a quella straordinaria
sequenza di 2001: Odissea nello spazio nella quale vediamo la scimmia antropomorfa
scagliare rabbiosamente un osso verso il cielo dopo averlo adoperato per la
prima volta come arma (oggi diremmo "non convenzionale"). Per uccidere
un suo simile.
L'osso si trasformerà, com'è noto, in un'astronave spaziale
grazie alla dissolvenza incrociata più vertiginosa della storia del
cinema.
Kubrick ci disse: "Il progresso è un'arma", ovvero "l'Uomo
è violenza".
La tentazione di spiegare è naturalmente comprensibile, soprattutto
quando registi e sceneggiatori affrontano argomenti tanto controversi, per
evitare il rischio di interpretazioni ambigue: celeberrimo al riguardo il
fraintendimento del bruttissimo Natural Born Killers.
Ma è segno di insicurezza.
Per questa ragione applaudo convinto all'ultimo film di Gus Van Sant, Elephant.
Il film,
vincitore della Palma d'oro a Cannes nel 2003, affronta lo stesso tema dello
straordinario Bowling a Coloumbine di Moore (ironia della sorte, vincitore
a Cannes quest'anno!): la strage al liceo Columbine del 1996, quando due studenti
fecero irruzione nella scuola armati fino ai denti e ammazzarono tutti quelli
che incontravano sulla loro strada come fossero in un videogame.
Quella strage ha incrinato, per la prima volta nella storia degli Usa, il
fortissimo legame tra gli americani e le armi, aprendo la via a proposte legislative
- solo parzialmente adottate - di regolamentazione del loro possesso.
Com'è noto, le micidiali armi adoperate da quegli studenti furono acquistate
anonimamente su Internet, grazie alla carta di credito dei genitori, con la
sicurezza del loro uso trasmessa dalle simulazioni nei boschi durante i "giochi
di guerra" e, naturalmente, i videogames.
Quei ragazzi tuttavia non avevano simpatie naziste, non avevano alle spalle
famiglie disagiate, non avevano problemi psichici, non avevano subito violenze
fisiche né shock di qualunque genere, non erano stati plagiati o minacciati,
non avevano moventi né alibi. Quei ragazzi erano terribilmente normali.
Quasi banali, anche nell'esecuzione dell'accecante gesto omicida. Senza dire
nulla, senza dare spiegazioni, senza pretendere qualcosa per non farlo, o
farlo più o meno velocemente, o dolorosamente. Uccisero, e basta. Tutto
quello che incontrava la mira dei loro fucili andava giù come un birillo,
nella più totale anomia, nella più sconfortante assenza di significato
o strategia di qualunque, benché condannabile, logica.
Quella strage fu il trono di sangue del non-pensiero agente.
Come fare un film su tutto questo?
Ebbene: rinunciando ad ogni spiegazione, ad ogni didascalia, ad ogni logica
della azione-reazione, ad ogni costrutto verbale complesso che tradisse intenzioni,
a-priori scatenanti qualcosa, qualunque cosa. Lasciando liberi i corpi e le
parole di alcuni studenti, attori improvvisati e a soggetto di un film che
attendeva di essere girato sotto gli occhi del suo regista. Un lavoro, quello
di Gus Van Sant, talmente coraggioso e al contempo semplice da lasciare esterrefatti.
Il plot diventa cronaca, la sceneggiatura muove i corpi e "disegna"
i loro incroci: di fatto il film è quasi interamente girato dal punto
di vista di alcuni studenti, tra soggettiva e inquadrature rigidamente geometriche,
che si incrociano nei corridoi della scuola alcuni minuti prima che scoppi
l'Inferno, mentre il regista si concede pochi extra, in particolare quando
"resta solo" con i due ragazzi e la loro preparazione fisica e spirituale
alla strage - c'è anche una scena di sesso omosessuale.
L'assenza di una sceneggiatura strutturata non deve far pensare, però,
a un reality (suprema finzione quella della pretesa di oggettività!),
si tratta invece di una penetrazione, sottilmente indolore e per questo inquietante
e altresì dolorosa, nei territori della malvagità.
E credo
di poter affermare con una certa sicurezza - mi vengono alla mente le molte
citazioni, da Beethoveen ai corridoi bianchi, al percorso accidentato della
macchina guidata da un genitore alcolizzato, che rischia di ammazzare tutti
prima di portare a scuola il figlio, contrapposta alla allucinante fedeltà
alle regole più scontate del Codice stradale da parte degli assassini
- che questo film trovi più di una ispirazione proprio in Arancia meccanica.
Anzi. Ritengo, personalmente, questo film l'ideale e coerente prosecuzione
cinematografica e estetica e sociologica insieme del film di Kubrick del 1971.
Cinematograficamente, lavora sullo stessa intuizione, con materiale simile;
e arriva allo stesso risultato per vie diverse.
Kubrick con sintesi geniale per addizione, Van Sant con lucidità per
sottrazione.
Esteticamente, Van Sant sceglie una fotografia nervosa, calca sulla emotività
della colonna sonora a dispetto delle immagini, centra ogni inquadratura e
infierisce, impietosendosi, sui linguaggi verbali e corporali degli adolescenti.
Non diversamente da Kubrick.
Sociologicamente, trova una realizzazione perfetta nella difficilissima descrizione
del "vuoto come origine di qualcosa" che spacca la testa a tutti
gli psicologi invitati in tivù ogniqualvolta accade qualche crimine
legato ai giovani (satanismo, suicidi, inspiegabili atti di crudeltà).
E Kubrick, forse, a quel tempo non poteva ancora immaginare quale tipo di
disagio avrebbe dovuto affrontare la generazione successiva a quella dei drughi.
Elephant, per tutte queste ragioni, è un capolavoro.
Un film che sembra rinunciare ad afferrare un solo brandello di verità,
ma poi se la prende tutta.
Elephant
Quando vidi
per la prima volta L'arancia meccanica di Stanley Kubrick pensai che mi era
chiaro finalmente cosa ne aveva impedito la proiezione, per 20 anni, in Gran
Bretagna, e per quale motivo fu tanto osteggiato.
Di certo non a causa del tasso di violenza, piuttosto per quello di crudeltà
(paragonabile a quella di Fritz Lang) con la quale mostrava il lato ripugnante
di ogni moralismo quando si scontra con l'incomprensibile, l'irriducibile
elemento umano. I rieducatori di Alex, il drugo appassionato di Beethoven
e ultra-violenza, diventavano così le maschere grottesche di una "violenza
di Stato" - tanto da portarli ad assumere gli altri drughi nel corpo
della polizia.
Dunque il sano schiaffo di quel film proveniva da due passaggi troppo spesso
mancanti nelle parabole cinematografiche sulla violenza: l'assoluta convinzione
che non è possibile spiegare la violenza, ridurla a mozione puramente
psichica o sociologica - che ha contribuito a creare i tanti noiosi serial
killer psicopatici del grande schermo - e di conseguenza la trascurabilità
di ogni ricomposizione, di ogni finale, positivo o negativo.
Non c'è fine alla violenza senza Fine del Mondo, e probabilmente l'ultimo
gesto dell'ultimo uomo sarà simile al primo, a quella straordinaria
sequenza di 2001: Odissea nello spazio nella quale vediamo la scimmia antropomorfa
scagliare rabbiosamente un osso verso il cielo dopo averlo adoperato per la
prima volta come arma (oggi diremmo "non convenzionale"). Per uccidere
un suo simile.
L'osso si trasformerà, com'è noto, in un'astronave spaziale
grazie alla dissolvenza incrociata più vertiginosa della storia del
cinema.
Kubrick ci disse: "Il progresso è un'arma", ovvero "l'Uomo
è violenza".
La tentazione di spiegare è naturalmente comprensibile, soprattutto
quando registi e sceneggiatori affrontano argomenti tanto controversi, per
evitare il rischio di interpretazioni ambigue: celeberrimo al riguardo il
fraintendimento del bruttissimo Natural Born Killers.
Ma è segno di insicurezza.
Per questa ragione applaudo convinto all'ultimo film di Gus Van Sant, Elephant.
Il film, vincitore
della Palma d'oro a Cannes nel 2003, affronta lo stesso tema dello straordinario
Bowling a Coloumbine di Moore (ironia della sorte, vincitore a Cannes quest'anno!):
la strage al liceo Columbine del 1996, quando due studenti fecero irruzione
nella scuola armati fino ai denti e ammazzarono tutti quelli che incontravano
sulla loro strada come fossero in un videogame.
Quella strage ha incrinato, per la prima volta nella storia degli Usa, il
fortissimo legame tra gli americani e le armi, aprendo la via a proposte legislative
- solo parzialmente adottate - di regolamentazione del loro possesso.
Com'è noto, le micidiali armi adoperate da quegli studenti furono acquistate
anonimamente su Internet, grazie alla carta di credito dei genitori, con la
sicurezza del loro uso trasmessa dalle simulazioni nei boschi durante i "giochi
di guerra" e, naturalmente, i videogames.
Quei ragazzi tuttavia non avevano simpatie naziste, non avevano alle spalle
famiglie disagiate, non avevano problemi psichici, non avevano subito violenze
fisiche né shock di qualunque genere, non erano stati plagiati o minacciati,
non avevano moventi né alibi. Quei ragazzi erano terribilmente normali.
Quasi banali, anche nell'esecuzione dell'accecante gesto omicida. Senza dire
nulla, senza dare spiegazioni, senza pretendere qualcosa per non farlo, o
farlo più o meno velocemente, o dolorosamente. Uccisero, e basta. Tutto
quello che incontrava la mira dei loro fucili andava giù come un birillo,
nella più totale anomia, nella più sconfortante assenza di significato
o strategia di qualunque, benché condannabile, logica.
Quella strage fu il trono di sangue del non-pensiero agente.
Come fare un film su tutto questo?
Ebbene: rinunciando ad ogni spiegazione, ad ogni didascalia, ad ogni logica
della azione-reazione, ad ogni costrutto verbale complesso che tradisse intenzioni,
a-priori scatenanti qualcosa, qualunque cosa. Lasciando liberi i corpi e le
parole di alcuni studenti, attori improvvisati e a soggetto di un film che
attendeva di essere girato sotto gli occhi del suo regista. Un lavoro, quello
di Gus Van Sant, talmente coraggioso e al contempo semplice da lasciare esterrefatti.
Il plot diventa cronaca, la sceneggiatura muove i corpi e "disegna"
i loro incroci: di fatto il film è quasi interamente girato dal punto
di vista di alcuni studenti, tra soggettiva e inquadrature rigidamente geometriche,
che si incrociano nei corridoi della scuola alcuni minuti prima che scoppi
l'Inferno, mentre il regista si concede pochi extra, in particolare quando
"resta solo" con i due ragazzi e la loro preparazione fisica e spirituale
alla strage - c'è anche una scena di sesso omosessuale.
L'assenza di una sceneggiatura strutturata non deve far pensare, però,
a un reality (suprema finzione quella della pretesa di oggettività!),
si tratta invece di una penetrazione, sottilmente indolore e per questo inquietante
e altresì dolorosa, nei territori della malvagità.
E credo di
poter affermare con una certa sicurezza - mi vengono alla mente le molte citazioni,
da Beethoveen ai corridoi bianchi, al percorso accidentato della macchina
guidata da un genitore alcolizzato, che rischia di ammazzare tutti prima di
portare a scuola il figlio, contrapposta alla allucinante fedeltà alle
regole più scontate del Codice stradale da parte degli assassini -
che questo film trovi più di una ispirazione proprio in Arancia meccanica.
Anzi. Ritengo, personalmente, questo film l'ideale e coerente prosecuzione
cinematografica e estetica e sociologica insieme del film di Kubrick del 1971.
Cinematograficamente, lavora sullo stessa intuizione, con materiale simile;
e arriva allo stesso risultato per vie diverse.
Kubrick con sintesi geniale per addizione, Van Sant con lucidità per
sottrazione.
Esteticamente, Van Sant sceglie una fotografia nervosa, calca sulla emotività
della colonna sonora a dispetto delle immagini, centra ogni inquadratura e
infierisce, impietosendosi, sui linguaggi verbali e corporali degli adolescenti.
Non diversamente da Kubrick.
Sociologicamente, trova una realizzazione perfetta nella difficilissima descrizione
del "vuoto come origine di qualcosa" che spacca la testa a tutti
gli psicologi invitati in tivù ogniqualvolta accade qualche crimine
legato ai giovani (satanismo, suicidi, inspiegabili atti di crudeltà).
E Kubrick, forse, a quel tempo non poteva ancora immaginare quale tipo di
disagio avrebbe dovuto affrontare la generazione successiva a quella dei drughi.
Elephant, per tutte queste ragioni, è un capolavoro.
Un film che sembra rinunciare ad afferrare un solo brandello di verità,
ma poi se la prende tutta.