Considero Godard forse la più grande congiuntura di talento espressivo ed estetico, maestro com'è di linguaggio delle immagini e soprattutto cultore della forma; ed è quindi semplice intuire l'imbarazzo nel raccontare questo film che è veramente una trasposizione filmica del suo essere regista.

Ne La Cinese l'occhio e l'orecchio di Godard si soffermano sui giovani francesi studenti e artistiche cercano in Mao la terra promessa alle loro inquietudini d'adolescenti piccolo-borghesi. Sono in 5 e vivono in un appartamento che delle amiche hanno conceduto loro per le vacanze. Véronique è studentessa di filosofia -ed è quella che rimugina le idee con maggiore tormento-, Guillaume è attore, si riempie la bocca di Brecht, ma vagheggia la sostituzione del teatro tradizionale con una firma di comunicazione diretta; Henri studia chimica ed ha il cervello più inquadrato in schemi razionali; Kirilov (così chiamato perché assomigliante al personaggio di Dostoijevski) fa il pittore, mentre Yvonne,di origine contadina dopo aver battuto il marciapiede pensando al sol dell'avvenire, fa da serva-compagna ai quattro intellettuali.

Tutti insieme hanno fondato una microcellula maoista: tappezzati i muri di slogan riempiti gli scaffali di libretti rossi con le massime auree, impiegano il tempo severamente, impartendosi dure lezioni di tecnica rivoluzionaria. Leggono ad alta voce i pensieri di Mao, ospitano un amico di colore che predica l'applicazione del marxismo-leninismo nel terzo mondo, distribuiscono il libretto per le strade. Al centro dell'interesse c'è il dibattito ideologico, che si risolve in un chiacchiere gialle e in pantomime antiamericane. Cammina cammina fra le scatole cinesi del fanatismo arrivano alla conclusione che è tempo di passare alle maniere forti che però si identificano in un'espulsione (Henri, fautore di una coesistenza pacifica); in una pistolettata di Véronique ad un ministro sovietico venuto a trescare con De Gaulle; in un suicidio (Kirilov dopo aver scritto una lettera di rivendicazione). Finite le vacanze, rientrate le padrone di casa, il gruppo si scioglie. "Fine d'un inizio" recita la didascalia di chiusura: generico atto di fede nella vitalità più che promessa terroristica.

Pensato come un film che si compiace d'osservare con quanta serietà i giovani si preoccupano del destino del mondo, La Cinese é una frittata rovesciata perché strumentalizza il significato di discorso politico.
Godard prende per il bavero i ragazzi infatuati di Mao: questi cinque, rimasti in quattro quando l'odioso revisionista li lascia, sembrano i fratelli maggiori di Camillo, il protagonista de La Cina è vicina di Bellocchio.
J.L.G. è così appassionato delle cose quali appaiono, e così innamorato della loro riproduzione visiva, che non le sottopone ad un'analisi troppo razionale. Qui il risultato, all'opposto dei propositi, é una satira tanto più slittata verso la farsa quanto più quei ragazzi soffocano in sé, svirilizzati dal mito di Mao, gli slanci della gioventù. Qualche volta sono sorpresi a farsi degli scherzi, ma il sorriso è per loro come una vacanza proibita. Véronique e Guillaume forse si amano ma anche loro si sprecano in parole e giochini di società.
In odio alla psicologia, Godard spoglia l'universo di ogni controcampo sentimentalistico; assiste con smorfia ironica a gesti assurdi e a dissennati dialoghi aggiungendovi didascalie composte di frasi smozzicate -che si completano nel corso del film-, e pagine di fumetto, in un collage piuttosto ermetico.

La cinese

di J. L. Godard

by Dome

Perché, allora, La Cinese è un film che fa la sua figura?
Per la vivacità dell'immagine, sottolineata dalla sciccheria del colore, per la freschezza con cui è resa una realtà vivacissima, per il frivolo piacere che dà all'occhio. Tutto sommato divertente nonostante il suo formalismo strepitoso, La Cinese applica in modo calzante l'estetica che giustifica lo spettacolo cinematografico con l'evidenza fotografica della traduzione visiva, secondo la tecnica di un reportage quasi generazionale che ci fa sentire veramente a ridosso di una realtà non drammatizzata dalla finzione. Un costante equilibrio che va di pari passo con la curiosità visiva dell'osservatore. Tutto ciò, in ultima analisi, se ci fa girare la testa ci dà anche la lieve ebbrezza d'essere nel gioco, a tu per tu con i protagonisti . Questo modo di fare cinema -non privo di civetterie che giovano all'immediatezza del racconto- riflette una costante del tempo ormai perduta dai cineasti contemporanei: la sostituzione dello spirito critico col culto dell'immagine piacevole.

 



home | CINEforum | scrivici