Kitano va al mare
opo
il meritato successo (di critica più che di pubblico) del suo film
precedente, quell' Hana Bi vincitore del festival di Venezia in
cui il primo premio ha avuto una gran componente nella sconosciuta (anche
ai giudici) figura dell'autore, Takeshi Kitano si ripresenta sugli schermi
occidentali con un'opera bizzarra ed a tratti esilarante, che può
decisamente spiazzare chi si aspettava un'opera sulla scia dello struggente
e lirico Hana Bi.
Tuttavia questa deliziosa favola estivo-natalizia, L'estate di Kikujiro,
rappresenta per Takeshi un ritorno alle origini, al periodo in cui, dopo
aver lasciato la facoltà di Ingegneria, tra un lavoro e l'altro,
aveva costituito con l'amico Kaneko Kiyoshi i "Two beats" (da
cui ha conservato lo pseudonimo di "Beat") un duo comico che
tratta, interpretando personaggi della piccolo-media borghesia, temi sociali
con un accento irriverente e scanzonato.
Anche la trama, già compressa nei suoi film precedenti, risulta
ridotta all'osso: un bambino che vive con la nonna, approfittando delle
vacanze estive e della mancanza di amici con cui giocare, parte alla ricerca
della madre, dopo aver visto una sua foto e saputo il suo indirizzo; viene
accompagnato da un balordo svitato ma bonario (Kitano) che, giunti a destinazione,
cercherà di lenire la tristezza del bimbo con divertenti trovate,
fino al ritorno a casa.
Ritengo
che questo (genere di) film, per essere apprezzato, abbia bisogno di una
certa "predisposizione" ovvero un'attitudine ad aprire la mente
anche a storie così semplici o, meglio, semplificate. Dall'esiguo
numero di persone in sala e da quelle che a circa metà film se
ne sono andate, non posso che pensare che quest'attitudine sia un po'
latitante; ma tutto questo probabilmente più per questione di abitudine
che di reale "incapacità".
Infatti il film inizia in maniera piuttosto statica, prosegue con lunghe
inquadrature fisse tipiche di molto cinema (anche recente) nipponico,
indugia su particolari che normalmente, per non annoiare il pubblico,
vengono tagliati nel montaggio (le lunghe camminate dei protagonisti,
da un angolo all'altro dei lunghissimi piani fissi), finisce come deve
finire, evitando facili ma banali scene commoventi e, soprattutto, rinunciando
(cosa rara, ai giorni nostri!) al sesso -niente scene d'amore, niente
innamoramenti, e, fuorché mamme e nonne, niente DONNE!- e, strano
ma vero, alla violenza, elemento cruciale dei suoi film precedenti, che
scoppiava improvvisamente come una forza incontrollabile dopo attimi di
silenziosa attesa.
Tutto questo può far capire una cosa: Kitano NON è un regista
che si prende troppo sul serio, né che prende troppo sul serio
il cinema. Non ha un'etica o un discorso pragmatico che vuole portare
avanti e sviluppare nei suoi film; non è così accesamente
critico nei confronti del tradizionalismo giapponese come Oshima, non
ricorda nostalgicamente un passato perduto come Ozu. Però una poetica
sì, ce l'ha, eccome: ed è questa che mi fa riconoscere in
lui il miglior esponente del cinema nipponico, dopo la morte di Kurosawa.
La sua attenzione alla FORMA più che ai CONTENUTI, al significante
più che al significato, alla messa in scena, alla figuratività
ben espressa dai suoi quadri che ancora accompagnano le immagini del film,
non possono far considerare questo film come un film "alla Chaplin"
(vedi Il monello) o (se già si può parlarne, dopo
un solo film degno di questo nome) "alla Benigni", ma lo pongono
piuttosto sul piano di un Buster Keaton.
Infatti molto accomuna Takeshi a uno dei più grandi comici del
cinema muto (e quindi di tutto il cinema comico):
- come detto sopra, la grande
cura formale prima che per il contenuto del film: da questo punto di
vista, i loro film non sono dei capolavori di morale, ma lo sono per
come sono fatti, per come appaiono, per l'inventiva ai massimi livelli
nelle inquadrature, nello studio degli spazi spesso estremamente sproporzionati
rispetto ai personaggi.
- l'inespressività
del loro sguardo che non lascia trapelare né trasmette al pubblico
le emozioni del protagonista: in Keaton questo era fortemente voluto,
in Kitano è stato anche causato da un incidente in moto che gli
ha provocato una semi-paresi alla faccia: evidente anche nei mai celati
tic all'occhio.
- collegato a quanto appena
detto, il recitare in maniera profondamente distaccata di entrambi rispetto
al loro personaggio: Keaton interpretava alla stessa maniera poveri,
ricchi, sognatori disincantati e soli al mondo, affaccendati e fannulloni;
così Kitano (straordinaria la somiglianza anche nei nomi) fa
il poliziotto e lo yakuza, il balordo e il premuroso, il fannullone
e quello che si impegna per i superiori e per la moglie. Ma sono convinto
che li faccia solo perché gli PIACE farli, non perché
si identifichi con essi o per criticare il loro comportamento.
Tra l'altro (mi si corregga
se sbaglio) Takeshi tributa un piccolo omaggio a Buster proprio all'inizio
del film, quando il piccolo Yusuke si trova da solo, in mezzo al campo
da calcio, e viene inquadrato dall'alto: mi ha subito ricordato una bellissima
sequenza de Il cameraman in cui Keaton, solo in un campo da baseball
deserto, si immagina battitore, lanciatore, arbitro.
Il film è una delizia anche per i tantissimi omaggi che piaceranno
ai cinefili: uno, il più evidente, è a 2001 quando un camionista,
dopo aver bastonato Takeshi reo di avergli rotto il parabrezza del camion
con un sasso, lancia il bastone-osso-arma contundente verso l'alto che
si trasforma nelle palle-astronavi con cui la ragazza che ha dato un passaggio
ai due sta deliziando il bambino in giochi circensi.
E pensare che Kitano, quasi infastidito dal rumoroso tip-tap di due camerieri,
alla domanda "Ma come, non conosce Fred Astaire e Ginger Rogers?",
risponde candidamente "E perché dovrei conoscerli!?".
Che
siano omaggi o no (i sogni del bambino sembrano i Sogni di Kurosawa),
sono molte le inquadrature strambe e le sequenze fantasiose (le fotografie
animate, l'uomo-polipo) che arricchiscono un film geniale e divertente,
ma anche molto umano e a tratti quasi commovente. Sottolineo il
QUASI perché, mentre una scena sembra (voler) provocare una lacrimuccia,
quella immediatamente successiva riporta il buon umore, come le banali
e grossolane bugie di Takeshi e i giochi organizzati-imposti ai non meno
bizzarri personaggi che incontrano per la strada vogliono ridare il sorriso
a Yusuke.
Una recensione, seppur sintetica,
del film, terminava con la seguente frase: "La fiaba dimostra (direbbero
gli antichi greci) che il gioco è una grande scuola di vita - anche per
gli adulti." Più che una "cronaca del percorso di formazione
di un bambino etc. etc.", penso che il film voglia rappresentare
(nel senso di mettere in scena) un bel ricordo legato ad un'esperienza
fugace e in parte dolorosa, ma tutto sommato divertente ed interessante:
il balordo "signore", tornerà, il giorno dopo, a giocare
tutti i suoi soldi alle corse dei ciclisti (sic!) e a pensare che la vita
non sia da prendere troppo sul serio; al bambino rimarrà un bel
ricordo dell'estate, racchiuso nel suo album "Come ho passato le
vacanze estive". Ma la vita intera, di cui questa è solo una
piccolissima parte, è fatta di sogni e disillusioni, momenti tristi
e momenti felici, partenze, arrivi e ritorni (al mare, come in tutti i
film di Kitano). Questo sembra volerci dire Takeshi con un film essenziale
ma che arriva al cuore passando attraverso un sorriso: quello con cui
ci lascia e saluta Yusuke, bambino quanto lui e con il quale ha molto
in comune, rivelandogli il suo nome, solo alla fine, come avrebbe fatto
un ninja d'altri tempi.
Giudizio:
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